Through a glass darkly
…”capitai in questo paesaggio di Fårö, con la sua assenza di colori, la sua durezza e le sue proporzioni straordinariamente ricercate e precise, dove si ha l’impressione di entrare in un mondo che è esterno, e del quale non siamo che una minuscola particella, come gli animali e le piante. Come sia accaduto non lo so, ma qui ho messo le radici e ora credo che la mia vita abbia nuovamente delle radici”.
Ingmar Bergman
Aprile. Un viaggio breve da Stoccolma a Fårö. Contatti, silenzi, intese: una madre e due figli in viaggio verso un’isola che è, prima di tutto, un luogo dell’anima. Fårö, dove Ingmar Bergman ha vissuto i suoi ultimi anni e dove ha girato alcuni dei suoi film più intensi, è l’approdo di un percorso che non è solo di attraversamento geografico, ma di consapevolezza emotiva.
I legami, le contraddizioni, le paure, le emozioni affiorano con delicatezza nel confine di un isolotto verde e taciturno, i cui contrasti sono resi più morbidi della luce di primavera. Il suo paesaggio minimale diventa proiezione di un mondo interiore e la cronaca fotografica di questo percorso si fonde con i frammenti del discorso visivo di Bergman. Come in uno specchio (1961), Persona (1966), Vergogna (1968), Passione (1969) e Scene da un matrimonio (1973), i film girati da Bergman a Fårö, diventano un serbatoio di evocazioni, suggestioni, citazioni che dialogano con le immagini di viaggio. L’isola, segnata dalla purezza e dalla potenza degli elementi, dai silenzi carichi di mistero interrotti dal rumore della natura, è la cornice astratta – quasi sospesa nel nulla, in una collocazione priva di coordinate – di un dialogo tra le figure di Bergman e quelle della realtà. Fårö sembra l’espressione “geografica” dell’immaginario di Bergman: un approdo, un rifugio, in cui va in scena l’incessante resa dei conti con gli altri e con se stessi. Through a Glass Darkly è quindi la mia personale esplorazione di questi temi, riletti con occhi di madre e di fotografa. È il diario di una ricerca: della giusta misura tra amore e emancipazione, della giusta distanza tra il “dentro” e il “fuori”, della giusta inclinazione dello sguardo. È una narrazione suggestiva, libera di scomporsi e di aprirsi alla percezione, accogliendo nuovi significati nella relazione tra le immagini di Bergman e le mie memorie di viaggio: “verità” fotografica e finzione cinematografica si fondono, ricordi e desideri si confondono, mentre un bambino (lo stesso bambino de Il silenzio) tenta di accarezzarli, e afferrarli, con la mano.